NOVARA – Un nuovo beato per la chiesa novarese e per la chiesa piemontese. Un esempio grande di testimonianza cristiana e di fedeltà al ministero nel nostro tempo. Ucciso in odio alla fede, quindi martire. E’ don Giuseppe Rossi che domenica 26 maggio è stato proclamato beato nella solenne celebrazione presieduta dal prefetto del Dicastero per le cause dei santi card. Marcelo Semeraro.
Ha vissuto ed attuato quello che fu un suo programma di vita. Aveva scritto infatti: “Gesù non lo si segue fino ai piedi della croce, ma occorre salire con Lui sulla croce!” Lo ha ricordato anche il vescovo di Novara mons. Franco Giulio Brambilla che al termine della S. Messa ha commentato: “sono le parole più semplici e più radicali che leggiamo nei suoi quaderni”, perché “il giovane parroco di Castiglione era sicuro nell’indicare che il segreto della sua fedeltà, cioè il motivo per cui non ha abbandonato il suo gregge, non era anzitutto la battaglia per la liberazione, ma la fedeltà all’ideale cristiano, alla legge morale, umana e sociale”.
Don Rossi “ha voluto stare tra la sua gente per consolare, aiutare, educare, animare quel barlume di vita ancora possibile nel travaglio dell’ultima guerra mondiale”.
Era nato a Varallo Pombia il 3 novembre 1912, in una famiglia povera e religiosa. Ordinato sacerdote il 29 giugno 1937, l’anno successivo divenne parroco a Castiglione Ossola, piccolo paese montano, dove svolse l’apostolato per circa sei anni. Qui si dedicò in particolare alla formazione dei giovani, alla direzione spirituale dell’Azione Cattolica femminile e delle Conferenze di San Vincenzo, all’assistenza dei poveri e malati. Scoppiata la Seconda Guerra Mondiale, la Val d’Ossola divenne teatro di scontri tra i partigiani e le formazioni fasciste. Il 26 febbraio 1945 i militi della Brigata Nera Ravenna ebbero uno scontro con i partigiani accanto a Castiglione, riportando due morti e una ventina di feriti. Questo provocò un’immediata rappresaglia contro la popolazione, in cui furono bruciate delle case e vennero presi degli ostaggi, tra cui don Giuseppe, che però vennero rilasciati lo stesso giorno. Ritornato a casa, durante la cena, fu ripreso dai militi fascisti che lo portarono fuori il paese, brutalmente percosso e ucciso.
E’ stato “un parroco per tutti – ha detto nell’omelia il card. Semeraro – un parroco per ciascuno e un parroco per i poveri… Questa via lo ha condotto a essere un parroco martire”. Egli ha citato un passo dell’agenda del Beato, scritto dopo cinque mesi di vita parrocchiale. “Mi getto disperatamente tra le braccia di Gesù, di cui devo seguire le orme verso la Croce, il Calvario. Si scatenano le bufere umane che paiono tutto travolgere: con Dio io sono oltre la grigia nuvolaglia delle passioni, nell’atmosfera serena dell’azzurro infinito, nella pace divina”.
Parole che “ci rivelano una disposizione di fondo che maturerà fino alla notte del 26 febbraio 1945” quando don Giuseppe Rossi “non esitò a immolare la sua giovane vita” per il gregge a lui affidato. In questa “immolazione”, c’è “la sua propria e personale imitazione di Cristo, al quale già era stato incorporato con il Battesimo e poi configurato con il sacramento dell’Ordine”, ricordandosi quello che gli disse il vescovo nel giorno della sua ordinazione sacerdotale: “non sarai mai un prete senza essere anche vittima per il sacrificio eucaristico”.
Anche il presidente della Repubblica, in un messaggio inviato per l’occasione, riconosce in lui “le qualità di pastore fedele alla propria comunità e di coerenza della testimonianza cristiana del giovane sacerdote.” La “sua dedizione al mandato ricevuto lo pose a rischio della vita, laddove, nel periodo della lotta di Liberazione dell’Italia, intendeva difendere l’esistenza e la dignità delle persone, incarnando valori di verità, giustizia e libertà che troveremo poi trasfusi nella Costituzione della Repubblica”.