Mercoledì 12 gennaio, all’udienza generale, continuando (per la settima volta) la catechesi su san Giuseppe, falegname e carpentiere nella Palestina ai tempi di Gesù, Francesco ha riflettuto sul dramma di chi non ha un’occupazione che gli “permetta di vivere serenamente” ed invitato a domandarsi come riscattare il lavoro “dalla logica del mero profitto” perché sia “vissuto come diritto e dovere fondamentale della persona”. Il lavoro di Giuseppe nella Palestina di quegli anni voleva dire anche preparare il legno per costruire case e spesso impegnarsi “in attività legate all’edilizia”. Era un mestiere duro, che “non assicurava grandi guadagni”. Non era considerato certo nobile, per cui i Nazareni si stupiscono e si scandalizzano quando Gesù, “il figlio del falegname” comincia a predicare e insegnare nella sinagoga, e parla “come un dottore della legge”. Un lavoro povero che si deduce dal fatto che quando con Maria presenta Gesù nel Tempio, insieme “offrirono solo una coppia di tortore o di colombi, come prescriveva la Legge per i poveri”. Il Papa, parlando della vita di Giuseppe e Gesù, ha pensato “a tutti i lavoratori del mondo”, in modo particolare “a quelli che fanno lavori usuranti nelle miniere e in certe fabbriche; a coloro che sono sfruttati con il lavoro in nero.”
Essi sono tanti a ricevere “lo stipendio di contrabbando, di nascosto, senza la pensione, senza niente. E se non lavori, tu, non hai alcuna sicurezza”. Ha ricordato le vittime del lavoro ed i “bambini che sono costretti a lavorare e a quelli che frugano nelle discariche per cercare qualcosa di utile da barattare.” Essi sono “nell’età del gioco, devono giocare”, non essere “costretti a lavorare come persone adulte”. Così ha solidarizzato con “chi è senza lavoro”, con “quanti si sentono giustamente feriti nella loro dignità perché non trovano un lavoro”. Tanta gente va a bussare alle porte delle fabbriche, delle imprese, senza trovare nulla se non un po’ di pane dalla Caritas: però “quello che ti dà dignità non è portare il pane a casa. Tu puoi prenderlo dalla Caritas: no, questo non ti dà dignità. Quello che ti dà dignità è guadagnare il pane, e se noi non diamo alla nostra gente, ai nostri uomini e alle nostre donne, la capacità di guadagnare il pane, questa è un’ingiustizia sociale in quel posto, in quella nazione, in quel continente.” Per questo il Pontefice ha ribadito il suo appello, lasciando il discorso preparato. “I governanti devono dare a tutti la possibilità di guadagnare il pane, perché questo guadagno dà loro la dignità. E’ un’unzione di dignità, il lavoro. (…) Molti giovani, molti padri e molte madri vivono il dramma di non avere un lavoro che permetta loro di vivere serenamente. E tante volte la ricerca di esso diventa così drammatica da portarli fino al punto di perdere ogni speranza e desiderio di vita”. Per questo il Papa ha chiesto a tutti di ricordare in silenzio “quegli uomini, quelle donne disperati perché non trovano lavoro” ed ha sottolineato che oggi “non si tiene abbastanza conto del fatto che il lavoro è una componente essenziale nella vita umana, e anche nel cammino di santificazione”. Lavorare infatti è anche “un luogo in cui esprimiamo noi stessi, ci sentiamo utili, e impariamo la grande lezione della concretezza, che aiuta la vita spirituale a non diventare spiritualismo”. Spesso però il lavoro è “ostaggio dell’ingiustizia sociale e, più che essere un mezzo di umanizzazione, diventa una periferia esistenziale.” Di qui l’invito a far sì che il lavoro sia “un modo di esprimere la nostra personalità, che è per sua natura relazionale”, ed anche “un modo per esprimere la nostra creatività. (…) E’ bello “pensare che Gesù stesso abbia lavorato e che abbia appreso quest’arte proprio da San Giuseppe”. Infine (concludendo con la preghiera a San Giuseppe composta da S. Paolo VI) ha chiesto di impegnarsi a “recuperare il valore del lavoro”, chiedendosi “quale contributo, come Chiesa, possiamo dare affinché esso sia riscattato dalla logica del mero profitto e possa essere vissuto come diritto e dovere fondamentale della persona, che esprime e incrementa la sua dignità.”
Mercoledì 19 gennaio, all’udienza generale Francesco ha proseguito la catechesi sulla figura di San Giuseppe, mettendo in risalto la vicinanza di Dio che ama sempre e “non si spaventa” per i peccati dell’uomo, come nella parabola del Padre misericordioso. Ricordando la lettera apostolica Patris corde e la parabola del Padre misericordioso, raccontata dall’evangelista Luca, ha sottolineato che la tenerezza “non è prima di tutto una questione emotiva o sentimentale”, ma “qualcosa di più grande della logica del mondo. È un modo inaspettato di fare giustizia. Ecco perché non dobbiamo mai dimenticare che Dio non è spaventato dai nostri peccati. (…) Dio non si spaventa dei nostri peccati, è più grande dei nostri peccati: è padre, è amore, è tenero. Non è spaventato dai nostri peccati, dai nostri errori, dalle nostre cadute, ma è spaventato dalla chiusura del nostro cuore (…) è spaventato dalla nostra mancanza di fede nel suo amore. C’è una grande tenerezza nell’esperienza dell’amore di Dio. Ed è bello pensare che il primo a trasmettere a Gesù questa realtà sia stato proprio Giuseppe. Infatti le cose di Dio ci giungono sempre attraverso la mediazione di esperienze umane.” Bisogna fare “esperienza di questa tenerezza, e se a nostra volta ne siamo diventati testimoni”. La tenerezza è “la maniera migliore per toccare ciò che è fragile in noi”. Come le infermiere toccano le ferite degli ammalati “così tocca il Signore le nostre ferite, con la stessa tenerezza”.
Di qui l’importanza ad “incontrare la Misericordia di Dio, specie nel Sacramento della Riconciliazione, nella preghiera personale con Dio, facendo un’esperienza di verità e tenerezza. Paradossalmente anche il Maligno può dirci la verità: lui è bugiardo, ma si arrangia per dirci la verità per portarci alla bugia; ma, se lo fa, è per condannarci. Invece il Signore ci dice la verità e ci tende la mano per salvarci. Noi sappiamo però che la Verità che viene da Dio non ci condanna, ma ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, ci perdona”. Il https://youtu.be/-bogypVvnkgPapa ha poi ricordato un’opera teatrale realizzata da alcuni giovani e incentrata sulla parabola del padre misericordioso. “Così è la misericordia di Dio. Non si spaventa del nostro passato, delle nostre cose brutte: si spaventa soltanto della chiusura. Tutti noi abbiamo conti da risolvere; ma fare i conti con Dio è una cosa bellissima, perché noi incominciamo a parlare e Lui ci abbraccia.”
Ha poi esortato a “specchiarci nella paternità di Giuseppe e domandarci se permettiamo al Signore di amarci con la sua tenerezza, trasformando ognuno di noi in uomini e donne capaci di amare così”. Senza questa “rivoluzione della tenerezza (…) rischiamo di rimanere imprigionati in una giustizia che non permette di rialzarsi facilmente e che confonde la redenzione con la punizione.” Ho così ricordato in modo particolare coloro che sono in carcere. “È giusto che chi ha sbagliato paghi per il proprio errore, ma è altrettanto giusto che chi ha sbagliato possa redimersi dal proprio errore.” Infatti “”non possono esserci condanne senza finestre di speranza. Qualsiasi condanna ha sempre una finestra di speranza.” Pensando ai carcerati, “pensiamo alla tenerezza di Dio per loro (…) perché trovino in quella finestra di speranza una via di uscita verso una vita migliore.” Ha concluso poi pregando San Giuseppe.
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