a cura di Gian Paolo Cassano
L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva.” (Lc 1,46-48)
Il tema dell’assunzione di Maria in cielo ha ispirato numerosi capolavori in varie epoche, in Oriente ed in Occidente. Mi fermo ora su un’opera di Paolo Veneziano; è la Dormitio Virginis (datata nel 1333 e firmata dall’autore nel cartiglio posto in basso) che è la sua prima opera certa (conservata presso i Musei civici di Vicenza), tavola centrale di un polittico che nelle due tavole ai lati raffigura san Francesco (con le stigmate ed il libro aperto) e sant’Antonio da Padova. Un’opera simile (attribuibile probabilmente allo stesso autore) è quella conservata presso la Chiesa di san Pantaleone di Venezia.
La tavola centrale raffigura, secondo lo schema iconografico proprio delle icone bizantine, l’episodio della dormitio della Vergine e della sua assunzione in cielo con il corpo dal Figlio.
Rimanendo fedele alla tradizione artistica, Veneziano presenta il corpo di Maria (rivestito di una splendida veste) disteso sopra un catafalco coperto da un drappo decorato e due candelieri. Circondano la salma tutti i dodici apostoli, riuniti per assistere la Madonna durante il suo trapasso. Inserito in una grande mandorla, emblema di santità e richiamo al divino, Cristo tiene in braccio una neonata interamente fasciata, simbolo dell’anima di sua madre. Il tutto circondato da una schiera di angeli. La loro presenza è fondamentale alla composizione generale; le ali rosse aperte, infatti, disegnano un semicerchio concavo che racchiude in basso la scena dell’Assunzione, e continua idealmente nel profilo superiore della tavola, anch’esso semicircolare. Nella parte superiore della tavola, è ancora Cristo a condurre l’anima di Maria in cielo, dov’è accolta da un coro di creature celesti.
“Vergine Madre, figlia del tuo figlio,/ umile e alta più che creatura,/ termine fisso d’etterno consiglio/tu se’ colei che l’umana natura/ nobilitasti sì, che ‘l suo fattore/ non disdegnò di farsi sua fattura.” (Dante, Paradiso canto XXXIII, 1-2)