Mercoledì 23 giugno, all’Udienza generale nel Cortile di San Damaso, il Papa ha iniziato un nuovo ciclo di catechesi con un percorso di riflessione su argomenti importanti per la fede presenti nella Lettera ai Galati, sottolineando l’attualità delle problematiche che incontrarono queste comunità cristiane. Francesco ha tracciato un parallelo fra la situazione odierna e quella dei primi cristiani della Galazia, dove viveva un’antica popolazione celtica che, attraverso tante peripezie, si era stabilita in quella estesa regione dell’Anatolia che aveva il capoluogo nella città di Ancyra, oggi Ankara, la capitale della Turchia. Ora San Paolo si era accorto di “un grande pericolo” E’ la preoccupazione di un pastore che “è come il papà o la mamma che subito si accorgono dei pericoli dei figli”. Si erano infatti infiltrati alcuni cristiani provenienti dal giudaismo che con astuzia cominciavano a seminare teorie contrarie all’insegnamento paolino, sostenevano la necessita di vivere secondo le regole della legge mosaica, rinunciando alla loro identità culturale per assoggettarsi a prescrizioni e usanze tipiche degli ebrei, fino a denigrare Paolo. “È la strada di sempre: togliere l’autorità all’Apostolo”, presentandosi “come gli unici possessori della verità” e puntando “a sminuire anche con la calunnia il lavoro svolto dagli altri”.
Succede anche oggi dove “si incominciano le storie e poi finiscono per screditare il parroco, il vescovo. È proprio la strada del maligno, di questa gente che divide, che non sa costruire. E in questa Lettera ai Galati vediamo questa procedura.” L’incontro con Cristo per i Galati era stato davvero l’inizio di una vita nuova, con un percorso che “permetteva loro di essere finalmente liberi, nonostante la loro storia fosse intessuta da tante forme di violenta schiavitù, non da ultimo quella che li sottometteva all’imperatore di Roma”. In questa situazione di crisi i Galati si sentivano incerti su come comportarsi: dovevano “seguire quanto Paolo aveva loro predicato, oppure dare retta ai nuovi predicatori che lo accusavano?”. E’ uno smarrimento che si ripete ancora oggi di fronte a predicatori che “con forza affermano che il cristianesimo vero è quello a cui sono legati loro, spesso identificato con certe forme del passato, e che la soluzione alle crisi odierne è ritornare indietro per non perdere la genuinità della fede”, nella “tentazione di rinchiudersi in alcune certezze acquisite in tradizioni passate.” Il Pontefice ha indicato alcuni criteri di riconoscimento, a partire dalla rigidità: “si deve far questo, si deve fare quell’altro … La rigidità è proprio di questa gente.”
Francesco ha allora invitato a seguire l’insegnamento dell’Apostolo per comprendere quale strada seguire in un’opera in cui fondamentale è l’azione dello Spirito Santo. “E’ la via liberante e sempre nuova di Gesù Crocifisso e Risorto; è la via dell’annuncio, che si realizza attraverso l’umiltà e la fraternità; i nuovi predicatori non conoscono cosa sia umiltà, cosa sia fraternità; è la via della fiducia mite e obbediente; i nuovi predicatori non conoscono la mitezza né l’obbedienza. E questa via mite e obbediente va avanti nella certezza che lo Spirito Santo opera in ogni epoca della Chiesa. In ultima istanza, la fede nello Spirito Santo presente nella Chiesa, ci porta avanti e ci salverà.” Con la sua indefessa opera evangelizzatrice, Paolo era riuscito a fondare delle comunità, non una cattedrale, ma “piccole comunità che sono il lievito della nostra cultura cristiana di oggi”. Esse “crescevano e andavano avanti. Anche oggi questo metodo pastorale si fa in ogni regione missionaria,” in uno stile che si riconosce anche oggi, come nella lettera ricevuta da un missionario della Papua Nuova Guinea. Paolo si era dovuto fermare in quella regione a causa di una malattia, ad indicare “che la via dell’evangelizzazione non dipende sempre dalla nostra volontà e dai nostri progetti, ma richiede la disponibilità a lasciarsi plasmare e a seguire altri percorsi che non erano previsti”.
All’Angelus, domenica 27 giugno il Papa ha ricordato che “l’amore non si compra”, ma si trova “entrando in intimità con Gesù” ed aiutando le persone “ferite e sole”. Commentando il vangelo domenicale ed in particolare la guarigione della donna emorroissa che era ritenuta impura a causa delle perdite emorragiche: infatti, “era emarginata” e “viveva sola, con il cuore ferito”. Ha così posto in evidenza come “la malattia più grande della vita” sia “la mancanza di amore”, il “non riuscire ad amare. E la guarigione che più conta è la guarigione degli affetti.” In questa donna senza nome “possiamo vederci tutti”: come lei, anche noi cerchiamo rimedi sbagliati per “saziare la nostra mancanza d’amore”, pensando “che a renderci felici siano il successo e i soldi, ma l’amore non si compra, è gratuito. Ci rifugiamo nel virtuale, ma l’amore è concreto. Non ci accettiamo così come siamo e ci nascondiamo dietro i trucchi dell’esteriorità, ma l’amore non è apparenza. Cerchiamo soluzioni da maghi, da santoni, per poi trovarci senza soldi e senza pace, come quella donna.”
Il vero amore, invece, si trova in Gesù, nel “contatto diretto” con Lui, proprio come fa la donna che “si butta tra la folla per toccargli il mantello”. Ora “in questo tempo, abbiamo capito quanto siano importanti il contatto, le relazioni. Lo stesso vale con Gesù: a volte ci accontentiamo di osservare qualche precetto e di ripetere preghiere, tante volte come i pappagalli…Ma il Signore attende che Lo incontriamo, che Gli apriamo il cuore, che, come la donna, tocchiamo il Suo mantello per guarire. Perché, entrando in intimità con Gesù, veniamo guariti nei nostri affetti.” Lo sguardo di Gesù tra la gente “va in cerca di un volto e di un cuore pieno di fede”, perché “guarda alla persona. Non si arresta di fronte alle ferite e agli errori del passato, ma va oltre i peccati e i pregiudizi. (…) Quante volte, quando noi parliamo, cadiamo nel chiacchiericcio che è sparlare degli altri, ‘spellare’ gli altri. (…) Gesù va oltre i peccati. Gesù va oltre i pregiudizi. Non si ferma alle apparenze, arriva al cuore. E guarisce proprio lei, che era scartata da tutti. Con tenerezza, la chiama figlia”. Di qui l’invito a fare come Gesù, ad imitarlo, rivolgendo uno sguardo alle tante persone che ci vivono accanto, ferite e sole, e che “hanno bisogno di essere amate”, di sentire una nostra “carezza.” Gesù ci “chiede uno sguardo che non si fermi all’esteriorità, ma vada al cuore; uno sguardo non giudicante (…), ma accogliente. Perché solo l’amore risana la vita. (…) Non giudicare, non giudicare la realtà personale, sociale, degli altri. Dio ama tutti! Non giudicare, lasciate vivere gli altri e cercate di avvicinarvi con amore.”
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