Continuando la catechesi sugli Atti degli apostoli, il Papa, nell’udienza generale di mercoledì 13 novembre ha riletto il capitolo 18, che narra la tappa di S. Paolo, “evangelizzatore infaticabile”, nella cosmopolita Corinto, dove trovò ospitalità e lavoro nella casa di Aquila e Priscilla, cacciati da Roma. Di qui il pensiero ai “fratelli ebrei”, ancora oggi perseguitati nel mondo: “il popolo ebraico ha sofferto tanto nella storia. È stato cacciato via, perseguitato (…) Nel secolo scorso abbiamo visto tante, tante brutalità che hanno fatto al popolo ebraico e tutti eravamo convinti che questo fosse finito. Ma oggi, incomincia a rinascere qua, là, là, l’abitudine di perseguitare gli ebrei. Fratelli e sorelle, questo non è né umano né cristiano. Gli ebrei sono fratelli nostri! E non vanno perseguitati.”
Negli sposi Aquila e Priscilla al servizio della comunità cristiana nascente a Corinto il Pontefice coglie l’immagine di tanti laici impegnati a evangelizzare, a dare radici profonde alla Parola del Signore nel mondo e a difendere i tanti perseguitati. Il loro è “cuore pieno di fede in Dio” e generoso nel “fare spazio” a chi è forestiero. E’ una sensibilità che “li porta a decentrarsi da sé per praticare l’arte cristiana dell’ospitalità e aprire le porte della loro casa per accogliere l’apostolo Paolo. Così essi accolgono non solo l’evangelizzatore, ma anche l’annuncio che egli porta con sé: il Vangelo di Cristo che è «potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede». E da quel momento la loro casa s’impregna del profumo della Parola «viva» che vivifica i cuori.” Con Paolo non condividono solo lo spazio fisico, ma anche un “lavoro manuale”, quello di costruttori di tende, che Paolo riteneva “uno spazio privilegiato di testimonianza cristiana oltre che un giusto modo per mantenersi senza essere di peso agli altri”. Così la loro casa diventa una “domus ecclesiae”, una “casa della Chiesa”, un “luogo di ascolto della Parola di Dio e di celebrazione dell’Eucaristia”, con le porte aperte ai fratelli e alle sorelle in Cristo, come accade “anche oggi in alcuni Paesi dove non c’è la libertà religiosa e non c’è la libertà dei cristiani.” Anche quando, insieme, lasciano Corinto per raggiungere Efeso e poi Roma, la loro casa continua ad essere “luogo di catechesi”: Aquila e Priscilla sono (come scrive nella Lettera ai Romani) suoi “collaboratori in Cristo Gesù”, grato perché hanno rischiato la vita pur di salvarlo, come accade ancora oggi in tante famiglie che “in tempo di persecuzione rischiano la testa per mantenere nascosti i perseguitati”. I due coniugi rappresentano un modello di vita coniugale per tutte le coppie e tutti i laici, responsabili, a servizio della comunità, impegnati nell’evangelizzazione che ha portato la Parola del Signore fino a noi. “Voi laici siete responsabili, per il vostro Battesimo, di portare avanti la fede. Era l’impegno di tante famiglie, di questi sposi, di queste comunità cristiane, di fedeli laici che hanno offerto l’humus alla crescita della fede”, come diceva Papa Benedetto XVI. “Chiediamo al Padre, che ha scelto di fare degli sposi la sua «vera ‘scultura’ vivente» (…) di effondere il suo Spirito su tutte le coppie cristiane perché, sull’esempio di Aquila e Priscilla, sappiano aprire le porte dei loro cuori a Cristo e ai fratelli e trasformino le loro case in chiese domestiche. Bella parola: una casa è una chiesa domestica, dove vivere la comunione e offrire il culto della vita vissuta con fede, speranza e carità.”
Domenica 17 novembre, celebrando la S. Messa in occasione della Giornata Mondiale per i Poveri, ha esortato ad accogliere il loro grido di aiuto come una chiamata a uscire dal nostro io. In San Pietro ci sono proprio loro, i poveri, “il tesoro della Chiesa”, i “preferiti di Dio” e “i portinai del Cielo”, il cuore pulsante del pontificato di Francesco, uomini, donne, bambini provenienti da diversi Paesi e con diverse storie di vita alle spalle di cui ancora portano i segni, invitati a fare festa alla mensa del Signore. Francesco si è riferito al Vangelo domenicale ricordando che per imparare a comprendere ciò che conta davvero è bene però stare in guardia da due tentazioni: la fretta e l’egoismo. Innanzitutto la fretta: “quante volte ci lasciamo sedurre dalla fretta di voler sapere tutto e subito, dal prurito della curiosità, dall’ultima notizia eclatante o scandalosa, dai racconti torbidi, dalle urla di chi grida più forte e più arrabbiato, da chi dice ‘ora o mai più’. Ma questa fretta, questo tutto e subito non viene da Dio.” Così, attratti dall’ultimo clamore non troviamo più tempo per Dio e per il fratello che ci vive accanto: l’antidoto è la perseveranza, il dono di Dio con cui si conservano tutti gli altri doni. Il secondo inganno è “l’io”, l’egoismo, l’autoreferenzialità, il fare le cose per sentirsi dire “bravo”, a si antepone la lingua del “tu”. Il cristiano non è un discepolo dell’io, non segue le sirene dei suoi capricci ma il richiamo dell’amore. “Parla la lingua di Gesù non chi dice io, ma chi esce dal proprio io. Eppure, quante volte, anche nel fare il bene, regna l’ipocrisia dell’io: faccio del bene ma per esser ritenuto bravo; dono, ma per ricevere a mia volta; aiuto, ma per attirarmi l’amicizia di quella persona importante. Così parla la lingua dell’io.” Ha poi ribadito che la Parola di Dio, spinge ad una “carità non ipocrita” cioè “a dare a chi non ha da restituirci, a servire senza cercare ricompense e contraccambi”. I poveri infatti sono preziosi agli occhi di Dio proprio perché non parlano la lingua dell’io, ma hanno sempre bisogno di chi li sostenga, e ci ricordano che il Vangelo si vive come mendicanti protesi verso Dio. “Allora, anziché provare fastidio quando li sentiamo bussare alle nostre porte, possiamo accogliere il loro grido di aiuto come una chiamata a uscire dal nostro io, ad accoglierli con lo stesso sguardo di amore che Dio ha per loro. Che bello se i poveri occupassero nel nostro cuore il posto che hanno nel cuore di Dio! Stando con i poveri, servendo i poveri, impariamo i gusti di Gesù, comprendiamo che cosa resta e che cosa passa.” Infatti “i poveri ci facilitano l’accesso al Cielo: per questo il senso della fede del Popolo di Dio li ha visti come i portinai del Cielo. Già da ora sono il nostro tesoro, il tesoro della Chiesa. Ci dischiudono infatti la ricchezza che non invecchia mai, quella che congiunge terra e Cielo e per la quale vale veramente la pena vivere: l’amore.”
All’Angelus ha messo in evidenza la chiamata del Signore a collaborare alla costruzione della storia diventando con Lui operatori di pace e testimoni di speranza nella salvezza e nella Risurrezione futura. La speranza in Dio “consente di non lasciarsi abbattere dai tragici eventi. Anzi, essi sono «occasione di dare testimonianza». I discepoli di Cristo non possono restare schiavi di paure e angosce; sono chiamati invece ad abitare la storia, ad arginare la forza distruttrice del male, con la certezza che ad accompagnare la sua azione di bene c’è sempre la provvida e rassicurante tenerezza del Signore. Questo è il segno eloquente che il Regno di Dio viene a noi, cioè che si sta avvicinando la realizzazione del mondo come Dio lo vuole.” E’ il Signore dunque che conduce la nostra esistenza e ci fa “conoscere il fine ultimo delle cose e degli eventi”. Da qui l’invito a “collaborare alla costruzione della storia diventando anche noi operatori di pace e testimoni di speranza nella salvezza e nella risurrezione futura”. Ora “la fede ci fa camminare con Gesù sulle strade tante volte tortuose di questo mondo, nella certezza che la forza del suo Spirito piegherà le forze del male, sottoponendole al potere dell’amore di Dio. L’amore è superiore, l’amore è oltre – potente, ha la potenza, perché è Dio. Dio è amore. Ci sono di esempio i martiri cristiani, i nostri martiri, i martiri cristiani anche dei nostri tempi, che sono più dei martiri del principio, i quali, nonostante le persecuzioni, sono uomini e donne di pace. Essi ci consegnano una eredità da custodire e imitare: il Vangelo dell’amore e della misericordia. Questo è il tesoro più prezioso che ci è stato donato e la testimonianza più efficace che possiamo dare ai nostri contemporanei, rispondendo all’odio con l’amore, all’offesa con il perdono.”
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