E’ l’ultima catechesi di papa Francesco, che il Signore ha chiamato a sé nella mattina dei 21 aprile scorso. Nel testo diffuso dalla Sala Stampa vaticana continuando la catechesi su “La vita di Gesù. Gli incontri”, preparata per l’udienza generale di mercoledì 16 aprile 2025, riflettendo sulla parabola del figlio prodigo, racconto che (come nelle altre parabole evangeliche) riprende “immagini e situazioni della realtà quotidiana” che “toccano anche la nostra vita”, invitandoci a prendere posizione. E’ forse la parabola più famosa, del padre e dei due figli (Lc 15,1-3.11-32), dove si trova “il cuore del Vangelo di Gesù, cioè la misericordia di Dio.”
Gesù la racconta per i farisei e gli scribi, che si scandalizzavano di Gesù che mangiava con i peccatori. E’ un messaggio di speranza, perché se ci siamo persi, Dio viene sempre a cercarci! Persi forse come una pecora, o come una moneta, caduta per terra e non si trova più, oppure “come i due figli di questo padre: il più giovane perché si è stancato di stare dentro una relazione che sentiva come troppo esigente; ma anche il maggiore si è perso, perché non basta rimanere a casa se nel cuore ci sono orgoglio e rancore.” Amare è sempre impegnativo: bisogna perdere qualcosa “per andare incontro all’altro.” Il figlio minore solo a sé stesso; non è solo un atteggiamento infantile o adolescenziale, ma è proprio anche di tanti adulti “che non riescono a portare avanti una relazione perché sono egoisti.” Illudendosi di ritrovare sé stessi si perdono, “perché solo quando viviamo per qualcuno viviamo veramente.”
Il più giovane (come ognuno di noi), “ha fame di affetto, vuole essere voluto bene. Ma l’amore è un dono prezioso, va trattato con cura.“ Così si svende, non si rispetta, si accorge, nella carestia, di essere solo. “Il rischio è che in quei momenti ci mettiamo a elemosinare l’affetto e ci attacchiamo al primo padrone che capita,” facendo nascere una convinzione distorta di stare in una relazione solo da servi, come se non esistesse l’amore vero. Così, toccato il fondo, torna a casa del padre per raccogliere qualche briciola d’affetto. Ora “solo chi ci vuole veramente bene può liberarci da questa visione falsa dell’amore. Nella relazione con Dio facciamo proprio questa esperienza”. E’ ciò che Rembrandt, in un famoso dipinto, ha rappresentato in maniera meravigliosa, dove colpiscono soprattutto due particolari: la testa rasta, penitente del giovane che somiglia anche a quella di un bambino, perché “sta nascendo di nuovo.” e “le mani del padre: una maschile e l’altra femminile, per descrivere la forza e la tenerezza nell’abbraccio del perdono.” Il figlio maggiore rappresenta poi “coloro per i quali la parabola viene raccontata: è il figlio che è sempre rimasto a casa con il padre, eppure era distante da lui, distante nel cuore” e che paradossalmente, “rischia di rimanere fuori di casa, perché non condivide la gioia del padre” che “esce anche incontro a lui”, senza rimproveri, ma facendogli sentire il suo amore, inviandola ad entrare, lasciando la porta aperta, anche per noi. “È questo, infatti, il motivo della speranza: possiamo sperare perché sappiamo che il Padre ci aspetta, ci vede da lontano, e lascia sempre la porta aperta.” Per questo domandiamo a Dio la “grazia di poter ritrovare anche noi la strada per tornare verso casa.”
Chiediamoci:
- Dove sono io in questo racconto?”
- Mi lascio provocare dall’episodio evangelico?
- So ritrovare nella parabola il cuore del Vangelo, la misericordia di Dio?
- L’accolgo come un messaggio di speranza, perché di fronti ai nostri smarrimenti, Dio viene sempre a cercarci?
- Rischio di perdermi nelle relazioni con gli altri, pensando solo a me stesso?
- Capisco che, per amare, occorre perdere qualcosa per incontrare l’altro?
- Capisco che, solo vivendo per qualcuno, vivo veramente?
- Sto attento al rischio, nella ricerca di affetto, di attaccarmi al primo padrone che capita?
- Mi accorgo, nella relazione con Dio, di fare esperienza di un amore accogliente?
- So sperare, sapendo che il Padre mi aspetta e lascia sempre la porta aperta?