“Fratelli, siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli. Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari. Voi ricordate infatti, fratelli, il nostro duro lavoro e la nostra fatica: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi, vi abbiamo annunciato il vangelo di Dio.” (1 Ts 2,7-9)
Mi fermo oggi a cogliere nell’immagine dell’apostolo Paolo, che in queste domeniche stiamo incontrando (leggendo la Prima Lettera ai Tessalonicesi), lo scritto più antico del Nuovo Testamento e che ci mostra il cuore dell’Apostolo delle genti.
Lo colgo nel dipinto di Rembrandt, San Paolo alla sua scrivania (1629-1630, conservato al Germanischs Nationalmuseum di Norimberga), dove il grande artista ci introduce di colpo e in modo sorprendente nella stanza di Paolo, ormai anziano, forse quella del suo ultimo domicilio a Roma. Si vedono le lettere e gli scritti ammassati su un tavolo in primo piano su cui Rembrandt vuole innanzitutto fare cadere la nostra attenzione. Rembrandt coglie Paolo seduto, seguendo il fascino che tale posa esercitava sui luministi caravaggeschi del secondo decennio del Seicento. E’ solo, perché sono lontane le folle che lo acclamavano, i discepoli e le chiese da lui fondate, persino le continue persecuzioni. Qui, Paolo è solo con il mistero del suo destino.
Dopo i libri, appese al muro, si notano due spade (la spada è l’elemento iconografico tipico di Paolo), ricordo della sua antica lotta contro i cristiani, ma anche annuncio del martirio a lui prossimo. Sotto di esse, egli medita assorto; pare quasi, ma solo per un occhio distratto, assopito. Dal lato sinistro del quadro piove una luce artificiale intensa. È quella che illumina il volto, il pensiero, quella che cade sulla spalla destra di Paolo, lasciandone però in ombra il braccio destro. L’apostolo impugna ancora la penna, ma appare ormai stanco Alla destra del quadro, da una finestra nascosta, entra la luce solare, che lascia in ombra i libri e le pergamene, ma inonda le spade e il braccio sinistro. Eccolo lì quel braccio straordinario (che, forse, solo ora notiamo), colto nell’atto di appoggiarsi al tavolo e far leva su di esso per balzare in piedi e partire. È il braccio del missionario, di Paolo, instancabile fondatore di chiese.
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