LA PAROLA DI PAPA FRANCESCO a cura di Gian Paolo Cassano

All’udienza generale mercoledì 9 giugno, continuando la catechesi sulla preghiera, Francesco è tornato a parlare della perseveranza orante, ricordando che la preghiera non è ritualismo, ma il respiro che dà senso a ogni azione. Egli è partito dall’invito paolino: «Pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie» (1 Ts 17-18) e dall’itinerario spirituale del Pellegrino russo, un testo ascetico russo, scritto fra il 1853 e il 1861. Qui colpisce la domanda su come sia possibile realizzare una preghiera continua, poiché “la nostra vita è frammentata in tanti momenti diversi, che non sempre rendono possibile la concentrazione”. Di qui comincia la sua ricerca, che lo condurrà a scoprire quella che viene chiamata “la preghiera del cuore” che il Papa esorta i fedeli presenti a ripetere con lui più volte. “Essa consiste nel ripetere con fede: ‘Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore!’ Una semplice preghiera, ma molto bella. Una preghiera che, a poco a poco, si adatta al ritmo del respiro e si estende a tutta la giornata.”
In effetti “il respiro non smette mai, nemmeno mentre dormiamo; e la preghiera è il respiro della vita”. Così il Pontefice coglie dal Catechismo della Chiesa cattolica (n 2742-2743) alcune “bellissime citazioni, tratte dalla storia della spiritualità, che insistono sulla necessità di una preghiera continua, che sia il fulcro dell’esistenza cristiana.” Il monaco Evagrio Pontico (IV secolo) diceva: «Non ci è stato comandato di lavorare, di vegliare e di digiunare continuamente (…), mentre la preghiera incessante è una legge per noi». C’è un ardore della vita cristiana che non deve mai venire meno, “un po’ come quel fuoco sacro che si custodiva nei templi antichi, che ardeva senza interruzione.” Così anche in noi “ci deve essere un fuoco sacro, (…) che arda in continuazione e che nulla possa spegnere”. Anche San Giovanni Crisostomo (vissuto tra il IV e V secolo) diceva: «Anche al mercato o durante una passeggiata solitaria è possibile fare una frequente e fervorosa preghiera. È possibile pure nel vostro negozio, sia mentre comperate sia mentre vendete, o anche mentre cucinate». Sono piccole preghiere (“Signore, abbi pietà di noi”, oppure “Signore, aiutami”), perché la preghiera, “è una sorta di rigo musicale, dove noi collochiamo la melodia della nostra vita”.
Certo, non è facile mettere in pratica questi principi, di fronte alle mille incombenze quotidiane. “Allora fa bene pensare che Dio, nostro Padre, il quale deve occuparsi di tutto l’universo, si ricorda sempre di ognuno noi. Dunque, anche noi dobbiamo sempre ricordarci di Lui!” Ora “il lavoro e la preghiera sono complementari”, come testimonia il grande onore per il lavoro nel monachesimo cristiano, sia per le necessità di provvedere a sé stessi e agli altri, ma anche per una sorta di equilibrio interiore. “È rischioso per l’uomo coltivare un interesse talmente astratto da perdere il contatto con la realtà”. Occorre ricordare che, “nell’essere umano tutto è ‘binario’: il nostro corpo è simmetrico, abbiamo due braccia, due occhi, due mani”. La preghiera, allora “che è il ‘respiro’ di tutto, rimane come il sottofondo vitale del lavoro, anche nei momenti in cui non è esplicitata. È disumano essere talmente assorbiti dal lavoro da non trovare più il tempo per la preghiera. Nello stesso tempo, non è sana una preghiera che sia aliena dalla vita. Una preghiera che ci aliena dalla concretezza del vivere diventa spiritualismo, oppure, peggio, ritualismo.” Gesù, infatti, dopo la Trasfigurazione, riprese il cammino quotidiano, “perché quella esperienza doveva rimanere nei cuori come luce e forza della loro fede” ed “i tempi dedicati a stare con Dio ravvivano la fede, la quale ci aiuta nella concretezza del vivere, e la fede, a sua volta, alimenta la preghiera, senza interruzione”. È “in questa circolarità fra fede, vita e preghiera” che “si mantiene acceso quel fuoco dell’amore cristiano che Dio si attende da noi”.
All’Angelus domenica 13 giugno il Papa ha esortato ad aver fiducia in Dio che opera come “un piccolo seme buono”, e da parte nostra a seminare il bene, che “lentamente porta frutto”. Due attitudini fondamentali anche per uscire bene dalla pandemia. Riferendosi al Vangelo domenicale, ha parlato del Regno di Dio, cioè della presenza del Signore “che abita il cuore delle cose e del mondo”, paragonata al granello di senape. Questo è il modo in cui Dio agisce, anche se, a volte, “il frastuono del mondo” e le tante attività quotidiane impediscono di scorgere in quale modo il Signore conduce la storia. “Anche il seme delle nostre opere buone può sembrare poca cosa; eppure, tutto ciò che è buono, appartiene a Dio e dunque umilmente, lentamente porta frutto. Il bene – ricordiamolo – cresce sempre in modo umile, in modo nascosto, spesso invisibile.” Occorre “uno sguardo nuovo” su noi stessi e sulla realtà per vedere oltre le apparenze e scoprire “la presenza di Dio che come amore umile è sempre all’opera nel terreno della nostra vita e in quello della storia”. Qui sta “la nostra fiducia, (…) che ci dà forza per andare avanti ogni giorno con pazienza, seminando il bene che porterà frutto. Quant’è importante questo atteggiamento anche per uscire bene dalla pandemia! Coltivare la fiducia di essere nelle mani di Dio e al tempo stesso impegnarci tutti per ricostruire e ricominciare, con pazienza e costanza.”
La “zizzania della sfiducia”, infatti, può attecchire anche nella Chiesa, “soprattutto quando assistiamo alla crisi della fede e al fallimento di vari progetti e iniziative”. Non bisogna però dimenticare “che i risultati della semina non dipendono dalle nostre capacità: dipendono dall’azione di Dio. A noi sta seminare, e seminare con amore, con impegno, e con pazienza. Ma la forza del seme è divina.” Così le cose di ogni giorno, “quelle che a volte sembrano tutte uguali e che portiamo avanti con distrazione o fatica, sono abitate dalla presenza nascosta di Dio, cioè hanno un significato”. Servono “occhi attenti”, per saper “cercare e trovare Dio in tutte le cose” (come diceva S. Ignazio di Loyola). Perché “con Dio anche nei terreni più aridi c’è sempre speranza di germogli nuovi”.

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