“Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione (…), dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie. (…) E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti.” (Mc. 14,22-24)
A Venezia (nella Basilica di S.Giorgio) è conservata l’Ultima cena (1524-94) di Jacopo Robusti detto il Tintoretto, un quadro che risente del contesto barocco in cui è inserito, con un evidente e particolare rapporto tra luci ed ombre, che non descrivono i volumi ma ritagliano le forme dal fondo scuro. Rappresenta il momento dell’istituzione dell’Eucaristia, profondamente diversa dall’opera di Leonardo (dove si evidenzia il tradimento di Giuda. Nella tela prevale una prospettiva angolare, in cui gli apostoli non vengono messi al centro della scena, che invece viene occupata da personaggi accidentali, come la donna che cerca un piatto in una tinozza o i servitori che prendono i piatti dal tavolo.
L’intenzione di Tintoretto era quella di ambientare la scena nella sua epoca, in una sorta di taverna veneziana, dando un tocco di umanità al dipinto. Ci sono tre livelli di luminosità: profana, religiosa e spirituale. La luminosità profana è gestita dalla lampada a soffitto che irraggia l’ambiente e colpisce i vari personaggi. La luminosità religiosa è data dall’aureola degli apostoli e di Gesù Cristo. La luminosità spirituale deriva dalle figure fatte solo di luce, usate dal pittore per conferire spiritualità alla scena.
Forti contrasti chiaro-scurali e la presenza di una luce di scorcio fanno apparire il quadro come una rappresentazione teatrale immortalata.
Con quel pane spezzato/vedo lo tuo corpo,/e lo faccio mio,/con quel vino rosso versato/vedo lo tuo sangue,/che ne le mie vene scorre,/e così entrando/ne le tue grazie divine/sento appagata l’anima mia.” (don Pompeo Mongiello)
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