All’Udienza generale mercoledì 5 maggio il Papa, proseguendo la catechesi sulla preghiera, ha parlato della preghiera di contemplazione, definendola il “respiro” del rapporto dell’uomo con Dio. Ora la dimensione contemplativa dell’essere umano “è un po’ come il ‘sale’ della vita: dà sapore, dà gusto alle nostre giornate”. Si può contemplare guardando sorgere il sole, ascoltando una musica, leggendo un libro, davanti ad un’opera d’arte o “a quel capolavoro che è il volto umano”. Contemplare “è un modo di essere” ma “essere contemplativi non dipende dagli occhi, ma dal cuore”.
Giustamente il card. Carlo Maria Martini intitolò la sua prima Lettera pastorale come Vescovo di Milano “La dimensione contemplativa della vita”, perché, “chi vive in una grande città, dove tutto – possiamo dire – è artificiale, dove tutto è funzionale, rischia di perdere la capacità di contemplare.”
Così “la preghiera, come atto di fede e d’amore” è come il respiro “della nostra relazione con Dio. La preghiera purifica il cuore e, con esso, rischiara anche lo sguardo, permettendo di cogliere la realtà da un altro punto di vista.” Il Catechismo della Chiesa cattolica (n. 2715) “descrive questa trasformazione del cuore da parte della preghiera citando una famosa testimonianza del Santo Curato d’Ars: ‘La contemplazione è sguardo di fede fissato su Gesù. ‘Io lo guardo ed egli mi guarda’, diceva al suo santo curato, il contadino di Ars in preghiera davanti al Tabernacolo. […] La luce dello sguardo di Gesù illumina gli occhi del nostro cuore; ci insegna a vedere tutto nella luce della sua verità e della sua compassione per tutti gli uomini.’ Tutto nasce da lì: da un cuore che si sente guardato con amore. Allora la realtà viene contemplata con occhi diversi.” Nella contemplazione amorosa basta uno sguardo, “basta essere convinti che la nostra vita è circondata da un amore grande e fedele da cui nulla ci potrà mai separare”. Il segreto di Gesù sta nella sua “relazione con il Padre celeste”, come nell’episodio della Trasfigurazione nel momento critico della sua missione “quando crescono intorno a Lui la contestazione e il rifiuto.”
Se alcuni maestri di spiritualità hanno contrapposto la contemplazione all’azione, esaltando coloro che scelgono di fuggire dal mondo per dedicarsi solo alla preghiera, questo “è un dualismo che non appartiene al messaggio cristiano”. Infatti “c’è un’unica grande chiamata, una grande chiamata, nel Vangelo, ed è quella a seguire Gesù sulla via dell’amore. Questo è l’apice, è il centro di tutto. In questo senso, carità e contemplazione sono sinonimi, dicono la medesima cosa. San Giovanni della Croce sosteneva che un piccolo atto di puro amore è più utile alla Chiesa di tutte le altre opere messe insieme. Ciò che nasce dalla preghiera e non dalla presunzione del nostro io, ciò che viene purificato dall’umiltà, anche se è un atto di amore appartato e silenzioso, è il più grande miracolo che un cristiano possa realizzare. E questa è la strada della preghiera di contemplazione: io Lo guardo, Lui mi guarda e lì, atto di amore nel dialogo silenzioso con Gesù che fa tanto bene alla Chiesa.”
Domenica 9 maggio, al Regina Coeli, il pensiero del Papa è andato a Gerusalemme, scossa da scontri, a Kabul, alla Colombia, al nuovo beato Rosario Angelo Livatino e alla festa della mamma. Riferendosi al Vangelo domenicale ha indicato nell’amore “il frutto che portano coloro che rimangono uniti” a Gesù. “E questo amore del Dio, del Padre, come un fiume scorre nel Figlio Gesù e attraverso di Lui arriva a noi sue creature. Egli dice infatti: «Come il Padre mi ha amato me, anche io ho amato voi» (Gv 15,9). L’amore che Gesù ci dona è lo stesso con il quale il Padre ama Lui: amore puro, incondizionato, amore gratuito. Non si può comprare, è gratuito. Donandolo a noi, Gesù ci tratta da amici – con questo amore -, facendoci conoscere il Padre, e ci coinvolge nella sua stessa missione per la vita del mondo.” Si rimane nell’amore amandosi gli uni gli altri come Lui ha amato noi. Questo “significa mettersi al servizio, al servizio dei fratelli, così come ha fatto Lui nel lavare i piedi ai discepoli. Significa anche uscire da sé, distaccarsi dalle proprie sicurezze umane, dalle comodità mondane, per aprirsi agli altri, specialmente di chi ha più bisogno. Significa mettersi a disposizione, con ciò che siamo e ciò che abbiamo. Questo vuol dire amare non a parole ma con i fatti.”
E’ “dire di no ad altri ‘amori’ che il mondo ci propone: (…) per il denaro, per il successo, per il potere….” Sono strade ingannevoli che “ci allontanano dall’amore del Signore e ci portano a diventare sempre più egoisti, narcisisti, prepotenti. E la prepotenza conduce a una degenerazione dell’amore, ad abusare degli altri, a far soffrire la persona amata. Penso all’amore malato che si trasforma in violenza (…). Amare come ci ama il Signore vuol dire apprezzare la persona che ci sta accanto, rispettare la sua libertà, amarla così com’è, non come noi vogliamo che sia; come è, gratuitamente. In definitiva, Gesù ci chiede di rimanere nel suo amore, abitare nel suo amore, non nelle nostre idee, non nel culto di noi stessi. Chi abita nel culto di sé stesso, abita nello specchio: sempre a guardarsi. Ci chiede di uscire dalla pretesa di controllare e gestire gli altri. Non controllare, servirli. Aprire il cuore agli altri, questo è amore, e donarci agli altri.” Tutto ciò conduce alla gioia “che il Signore possiede, perché è in totale comunione col Padre, vuole che sia anche in noi in quanto uniti a Lui. La gioia di saperci amati da Dio nonostante le nostre infedeltà ci fa affrontare con fede le prove della vita, ci fa attraversare le crisi per uscirne migliori. È nel vivere questa gioia che consiste il nostro essere veri testimoni, perché la gioia è il segno distintivo del vero cristiano. Il vero cristiano non è triste, sempre ha quella gioia dentro, anche nei momenti brutti.”
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