All’Udienza generale mercoledì 3 febbraio il Pontefice ha continuato la catechesi parlando della preghiera liturgica. Il cristiano infatti non può affidare solo alla preghiera personale e spontanea, il suo rapporto con il Signore, poiché senza la liturgia, il cristianesimo “è senza Cristo”, in quanto i riti liturgici, la Sacra Scrittura e i sacramenti sono “mediazioni concrete” per arrivare all’incontro con il Signore, “presente nello Spirito Santo attraverso i segni sacramentali”. Nella storia della Chiesa spesso c’è stata “la tentazione di praticare un cristianesimo intimistico, che non riconosce ai riti liturgici pubblici la loro importanza spirituale”, rivendicando una “presunta maggiore purezza di una religiosità che non dipendesse dalle cerimonie esteriori, ritenute un peso inutile o dannoso”, criticando non “una particolare forma rituale”, o “un determinato modo di celebrare, ma la liturgia stessa”. Così molti fedeli, anche se partecipano alla Messa “hanno attinto alimento per la loro fede e la loro vita spirituale piuttosto da altre fonti, di tipo devozionale”.
Su questo la Chiesa ha “molti camminato”, come evidenzia la costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium che “ribadisce in maniera completa e organica l’importanza della divina liturgia per la vita dei cristiani, i quali trovano in essa quella mediazione oggettiva richiesta dal fatto che Gesù Cristo non è un’idea o un sentimento, ma una Persona vivente, e il suo Mistero un evento storico.”
Ora la preghiera dei cristiani “passa attraverso mediazioni concrete: la Sacra Scrittura, i Sacramenti, i riti liturgici, la comunità”. E’ la “sfera corporea e materiale”, indispensabile per la vita cristiana, perché “in Gesù Cristo essa è diventata via di salvezza”. Per questo “non esiste spiritualità cristiana che non sia radicata nella celebrazione dei santi misteri” e “la missione di Cristo e dello Spirito Santo (ricorda il Catechismo della Chiesa cattolica al n. 2655) nella Liturgia sacramentale della Chiesa, annunzia, attualizza e comunica il Mistero della salvezza, prosegue nel cuore che prega”. Occorre ricordare che “la liturgia, in sé stessa, non è solo preghiera spontanea, ma qualcosa di più e di più originario: è atto che fonda l’esperienza cristiana tutta intera e, perciò, anche la preghiera. È evento, è accadimento, è presenza, è incontro.” Cristo “si rende presente nello Spirito Santo attraverso i segni sacramentali”: per questo è necessario per noi cristiani “partecipare ai divini misteri”. Senza liturgia “forse è un cristianesimo senza Cristo. Senza Cristo totale.” Anche nel rito più spoglio (nella prigionia o nella persecuzione), “Cristo si rende realmente presente e si dona ai suoi fedeli.” La liturgia “chiede di essere celebrata con fervore, perché la grazia effusa nel rito non vada dispersa ma raggiunga il vissuto di ciascuno”, perché “la preghiera (scrive ancora il Catechismo al n. 2655) interiorizza e assimila la Liturgia durante e dopo la sua celebrazione”. Anche le preghiere che non “provengono dalla liturgia, (…) se sono cristiane, presuppongono la liturgia, cioè la mediazione sacramentale di Gesù Cristo.” Cristo, infatti, è presente “ogni volta che celebriamo un Battesimo, o consacriamo il pane e il vino nell’Eucaristia, o ungiamo con l’Olio santo il corpo di un malato” e la preghiera del cristiano “fa propria la presenza sacramentale di Gesù”. Ciò che è esterno a noi diventa parte di noi, e, “la liturgia lo esprime perfino con il gesto così naturale del mangiare”.
Per questo “la Messa non può essere solo ascoltata”, come “se noi fossimo solo spettatori di qualcosa che scivola via senza coinvolgerci”. La Messa “è sempre celebrata”, non solo dal sacerdote che la presiede, “ma da tutti i cristiani che la vivono”. Il centro è Cristo “è Lui il Protagonista della liturgia” e “la vita è chiamata a diventare culto a Dio, ma questo non può avvenire senza la preghiera, specialmente la preghiera liturgica”. Così, quando “quando si va a Messa la domenica” si va “a pregare in comunità, (…) a pregare con Cristo che è presente.”
All’Angelus domenica 7 febbraio il Papa ha ricordato che chinarsi su chi soffre per farlo rialzare, prendersene cura con tenerezza e compassione è lo stile del Figlio di Dio e della Chiesa.
La guarigione che di cui pala la liturgia domenicale è quella attesa da chi soffre ed è anche quella di cui ha bisogno l’umanità di oggi riscopertasi “fragile” di fronte ad una pandemia che sta causando milioni di vittime. Dal racconto evangelico il Papa fa emergere la “dolcezza” del gesto risanante di Gesù e il suo potere: “si avvicinò, la fece alzare prendendola per mano. (…) Il potere risanante di Gesù non incontra alcuna resistenza; e la persona guarita riprende la sua vita normale, pensando subito agli altri e non a sé stessa – e questo è significativo, è segno di vera salute”!
Gesù poi guarisce tutti i malati e gli indemoniati, le “persone sofferenti nel corpo e nello spirito”, i “prediletti”, che Gesù affida anche ai discepoli perché non siano solo testimoni oculari ma siano coinvolti e “inviati” nel mondo “col potere di guarire” e “scacciare i demoni”. Ora il “prendersi cura dei malati di ogni genere non è per la Chiesa attività opzionale, (…) una cosa accessoria, no. Prendersi cura dei malati di ogni genere fa parte integrante della missione della Chiesa, come lo era di quella di Gesù. E questa missione è portare la tenerezza di Dio all’umanità sofferente.” La risposta cristiana alla sofferenza, infatti, non è una “spiegazione” ma una “presenza d’amore”, riferendosi alla Giornata mondiale del Malato dell’11 febbraio. Così “la realtà che stiamo vivendo in tutto il mondo a causa della pandemia rende particolarmente attuale (…) questa missione essenziale della Chiesa”, mettendoci davanti alla nostra condizione umana, “così alta nella dignità e nello stesso tempo così fragile”. Gesù risponde alla sofferenza con una “presenza d’amore che si china, che prende per mano e fa rialzare, come ha fatto con la suocera di Pietro”. E’ “chinarsi per far rialzare l’altro. (…) E questa è la missione che Gesù ha affidato alla Chiesa”, manifestando la “sua Signoria non dall’alto in basso, non a distanza, ma inchinandosi, tendendo la mano, (…) nella vicinanza, nella tenerezza, e nella compassione” che “sono lo stile di Dio. Dio si fa vicino e si fa vicino con tenerezza e con compassione” che presuppone un’intima “relazione con il Padre”.
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