All’Udienza generale di mercoledì 28 ottobre Francesco ha proseguito la catechesi sulla preghiera parlando di quella del Signore, il cui primo atto pubblico è “la partecipazione a una preghiera corale del popolo, una preghiera penitenziale, dove tutti si riconoscevano peccatori”. Il Papa, all’inizio, ha ricordato di non poter scendere a “salutare ognuno”, per evitare assembramenti: “questo è contro le cure, le precauzioni che dobbiamo avere davanti a questa ‘signora’ che si chiama Covid e che ci fa tanto male. Per questo, scusatemi se io non scendo a salutarvi: vi saluto da qui ma vi porto nel cuore, a tutti. E voi, portatemi nel cuore a me, e pregate per me. A distanza, si può pregare uno per l’altro.” Al Giordano, Cristo, facendosi battezzare da Giovanni, “prega con i peccatori del popolo di Dio” anche se è “il Giusto, non è peccatore”, perché quando noi preghiamo, Lui è con noi, e prega per noi, perché non preghiamo mai da soli. Gesù “non rimane sulla sponda opposta del fiume”, non vuole apparire diverso e distante “dal popolo disobbediente, ma immerge i suoi piedi nelle stesse acque di purificazione”. Si fa “come un peccatore” perché “non è un Dio lontano, e non può esserlo. L’incarnazione lo ha rivelato in modo compiuto e umanamente impensabile. Così, inaugurando la sua missione, Gesù si mette a capofila di un popolo di penitenti, come incaricandosi di aprire una breccia attraverso la quale tutti quanti noi, dopo di Lui, dobbiamo avere il coraggio di passare. La strada è difficile, ma lui va, aprendo il cammino.” Infatti “la preghiera filiale (spiega il Catechismo, al n. 2599) che il Padre aspettava dai suoi figli, è finalmente vissuta dallo stesso Figlio unigenito nella sua umanità, con gli uomini e per gli uomini”. L’evangelista Luca evidenzia il clima di preghiera di quel giorno, e nota che, mentre Gesù pregava, “il cielo si aprì”. Pregando “Gesù apre la porta dei cieli, e da quella breccia discende lo Spirito Santo” e la voce del Padre lo riconosce come “il Figlio mio, l’amato”. Una frase che “ci fa intuire qualcosa del mistero di Gesù e del suo cuore sempre rivolto al Padre”, perché sempre “Gesù non è mai senza il rifugio di una dimora: abita eternamente nel Padre.” Con quella preghiera lo Spirito Santo prende possesso della persona di Gesù; è una preghiera “totalmente personale, e così sarà per tutta la sua vita terrena”, ma nella Pentecoste diventerà per grazia la preghiera di tutti i battezzati in Cristo. Gesù “ci invita a pregare così come Lui pregava”. Per questo “se in una sera di orazione ci sentiamo fiacchi e vuoti”, e “ci sembra che la vita sia stata del tutto inutile”, dobbiamo supplicare “che la preghiera di Gesù diventi anche la nostra”. Affidiamoci a Lui, perché preghi per noi.“ Egli “è l’intercessore; fa vedere al Padre le piaghe, per noi. Abbiamo fiducia in questo, e grande. Udremo allora, se noi abbiamo fiducia, udremo allora una voce dal cielo, più forte di quella che sale dai bassifondi di noi stessi, e sentiremo questa voce bisbigliare parole di tenerezza: Tu sei l’amato di Dio, tu sei figlio, tu sei la gioia del Padre dei cieli”. Parole del Padre che sono per ciascuno di noi, “anche se fossimo respinti da tutti, peccatori della peggior specie”, perché “Gesù non scese nelle acque del Giordano per sé stesso, ma per tutti noi”. Ora “Gesù ci ha regalato la sua stessa preghiera, ‘che è il suo dialogo d’amore con il Padre’, come un seme della Trinità, che vuole attecchire nel nostro cuore. Accogliamolo! Accogliamo questo dono, il dono della preghiera. Sempre con Lui. E non sbaglieremo.”
Domenica 1 novembre, nella solennità di Tutti i santi, il Papa, all’Angelus, ha invitato a riflettere sulla loro testimonianza e modello di un cammino, fondato sulle Beatitudini. I Santi sono “veramente felici” perché hanno scoperto “il segreto della felicità autentica” e sono “i testimoni più autorevoli della speranza cristiana perché l’hanno vissuta in pienezza nella loro esistenza, tra gioie e sofferenze, attuando le Beatitudini”. Esse sono la “via della santità” o “la carta d’identità del cristiano”, che ne fa un seguace di Gesù. Francesco in modo particolare si è soffermato sulla seconda e la terza di queste strade che possono farci beati, felici, cioè Santi. Entrambe “cominciano quaggiù e si compiranno in Cristo”. La seconda beatitudine (“Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati”) sembra contradditoria “perché il pianto non è segno di gioia e felicità. Motivi di pianto e di sofferenza sono la morte, la malattia, le avversità morali, il peccato e gli errori: semplicemente la vita di ogni giorno, fragile, debole e segnata da difficoltà. Una vita a volte ferita e provata da ingratitudini e incomprensioni.” Gesù però proclama beati proprio coloro che piangono perché “nonostante tutto confidano nel Signore e si pongono sotto la sua ombra.” Essi “sperano con pazienza nella consolazione di Dio. E questa consolazione la sperimentano già in questa vita.” La terza Beatitudine (“Beati i miti, perché avranno in eredità la terra”) esalta invece la mitezza che è “la caratteristica di Gesù”, un modo di essere e di vivere che ci avvicina a Lui e crea unità. “Miti sono coloro che sanno dominare sé stessi, che lasciano spazio all’altro, lo ascoltano e lo rispettano nel suo modo di vivere, nei suoi bisogni e nelle sue richieste. Non intendono sopraffarlo né sminuirlo, non vogliono sovrastare e dominare su tutto, né imporre le proprie idee e i propri interessi a danno degli altri. Queste persone, che la mentalità mondana non apprezza, sono invece preziose agli occhi di Dio, il quale dà loro in eredità la terra promessa, cioè la vita eterna”. Nella vita di oggi a livello mondiale “c’è tanta aggressività e anche nella vita di ogni giorno, la prima cosa che esce da noi è l’aggressione, la difesa”. Per questo “abbiamo bisogno di mitezza per andare avanti nel cammino della santità. Ascoltare, rispettare, non aggredire: mitezza.” Si comprende allora che la via delle Beatitudini, la “strada evangelica percorsa da Santi e Beati” è “controcorrente rispetto alla mentalità di questo mondo” e “ci ricorda la personale e universale vocazione alla santità, e ci propone i modelli sicuri per questo cammino, che ciascuno percorre in maniera unica, in maniera irripetibile. Basta pensare all’inesauribile varietà di doni e di storie concrete che c’è tra i santi e le sante: non sono uguali, ognuno ha la propria personalità e ha sviluppato la sua vita nella santità secondo la propria personalità e ognuno di noi può farlo, andare su quella strada: mitezza, mitezza per favore e andremo alla santità”.
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