Mercoledì 7 ottobre, all’Udienza generale in Aula Paolo VI, Francesco ha ripreso la catechesi sulla preghiera, dopo il ciclo sulla cura del Creato nel mondo ferito dalla pandemia, ispirandosi all’esperienza del profeta Elia. “Quanto bisogno abbiamo noi di credenti, di cristiani zelanti, che agiscano davanti a persone che hanno responsabilità dirigenziale con il coraggio di Elia, per dire: Questo non va fatto! Questo è un assassinio!” I cristiani non sono chiamati a vivere “una dicotomia”, perché bisogna stare davanti al Signore ed anche andare incontro ai fratelli a cui ci invia. “La preghiera non è un rinchiudersi con il Signore per truccarsi l’anima. (…) Questa è finta di preghiera. La preghiera è un confronto con Dio e un lasciarsi inviare a servire i fratelli. Il banco di prova della preghiera è l’amore concreto per il prossimo. E viceversa: i credenti agiscono nel mondo dopo aver prima taciuto e pregato; altrimenti la loro azione è impulsiva, è priva di discernimento, è un correre affannoso senza meta. E quando i credenti fanno così, fanno tante ingiustizie perché non sono andati prima dal Signore a pregare, a discernere cosa devono fare.”
La Scrittura presenta Elia come “un uomo dalla fede cristallina”, un uomo integerrimo, “incapace di compromessi meschini”, che nonostante le prove, rimane fedele a Dio. “Nel suo stesso nome che potrebbe significare ‘Jahvè è Dio’, è racchiuso il segreto della sua missione”, ricordando come il suo simbolo sia il fuoco e come Elia sia l’esempio di tutte le persone di fede che conoscono tentazioni e sofferenze, “ma non vengono meno all’ideale per cui son nate”. La fede di Elia sembra conoscere un progresso fino a raggiungere il suo culmine nell’esperienza sul monte Oreb quando Dio si manifesta a lui non in una tempesta impetuosa o in un terremoto, ma “nel mormorio di un vento leggero”, o meglio “in un filo di silenzio sonoro”. Un segno umile con cui Dio comunica con Elia. Una vicenda che “sembra scritta per tutti noi. In qualche sera possiamo sentirci inutili e soli. È allora che la preghiera verrà e busserà alla porta del nostro cuore. Un lembo del mantello di Elia lo possiamo raccogliere tutti noi, come ha raccolto la metà del mantello il suo discepolo Eliseo. E anche se avessimo sbagliato qualcosa, o ci sentissimo minacciati e impauriti, tornando davanti Dio con la preghiera, ritorneranno come per miracolo anche la serenità e la pace. Questo è quello che ci insegna l’esempio di Elia.” La preghiera è “la linfa che alimenta la sua esistenza”; così è uno dei personaggi più cari alla tradizione monastica, un “padre spirituale della vita consacrata a Dio”. Elia è “l’uomo di Dio, che si erge a difensore del primato dell’Altissimo”, ma è anche costretto a fare i conti con le sue fragilità. “Nell’animo di chi prega, il senso della propria debolezza è più prezioso dei momenti di esaltazione”, ricordando che ci sono “momenti di preghiera che noi sentiamo che ci tirano su, anche di entusiasmo, e momenti di preghiera di dolore, di aridità, di prove”, perché “la preghiera è così: lasciarsi portare da Dio e lasciarsi anche bastonare da situazioni brutte e anche dalle tentazioni”. Così Elia è “uno dei personaggi più avvincenti di tutta la Sacra Scrittura”, che travalica i confini del tempo.
Domenica 11 ottobre, all’Angelus, il Papa ha ricordato come per il Signore non ci siano persone escluse, ma tutti siano considerati da Lui “degni del suo amore.” Il progetto di Dio per tutta la famiglia umana è una “meravigliosa festa di amore e di comunione intorno al suo Figlio unigenito” e al suo invito, come gli inviatati alle nozze della parabola evangelica “tante volte anche noi anteponiamo i nostri interessi e le cose materiali al Signore che ci chiama. Ma il re della parabola non vuole che la sala resti vuota, perché desidera donare i tesori del suo regno. Dio non si arrende al rifiuto e anzi allarga l’invito anche ai più lontani, “senza escludere nessuno”, perché “Dio chiama i cattivi, pure. (…) E Gesù andava a pranzo con i pubblicani, che erano i peccatori pubblici, lì, erano i cattivi … Gesù, Dio non ha paura della nostra anima ferita da tante cattiverie, perché ci ama, ci invita.” Come il Signore anche la Chiesa “è chiamata a raggiungere i crocicchi odierni, cioè le periferie geografiche ed esistenziali dell’umanità”, tutti quei luoghi dove vivono “brandelli di umanità senza speranza”. Occorre “non adagiarsi sui comodi e abituali modi di evangelizzazione e di testimonianza della carità, ma di aprire le porte del nostro cuore e delle nostre comunità a tutti, perché il Vangelo non è riservato a pochi eletti. Anche quanti stanno ai margini, perfino coloro che sono respinti e disprezzati dalla società, sono considerati da Dio degni del suo amore.
Dio dunque apparecchia per tutti, ma pone ai suoi invitati una condizione, quella di indossare l’abito nuziale, ai tempi di Gesù una specie di mantellina che ogni invitato riceveva in dono all’entrata. Uno di questi, non indossandola, rifiutando il dono si è escluso da solo e il re non può che gettarlo fuori. “Quest’uomo ha accolto l’invito, ma poi ha deciso che esso non significava nulla per lui: era una persona autosufficiente, non aveva alcun desiderio di cambiare o di lasciare che il Signore lo aiutasse. Questa mantellina, l’abito nuziale simboleggia la misericordia che Dio ci dona gratuitamente. La grazia. L’invito di Dio, anche che ti porti Dio alla festa, è una grazia. Senza grazia tu non puoi fare un passo nella vita cristiana. Tutto è grazia. Non basta accettare l’invito a seguire il Signore, occorre essere disponibili a un cammino di conversione, che cambia il cuore.” La misericordia di Dio è un dono del suo amore, è la grazia che va accolta “con stupore e con gioia”.
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