All’Udienza generale di mercoledì 17 giugno, il Papa, proseguendo la catechesi sulla preghiera, Ha parlato di quella di intercessione, riflettendo su Mosè, con particolare riferimento all’episodio del vitello di metallo fuso. Mosè è stato “il più grande profeta di Gesù”, che “è il pontifex, è il ponte fra noi e il Padre”, che “intercede per noi, fa vedere al Padre le piaghe che sono il prezzo della nostra salvezza e intercede”. Mosè ci sprona a intercedere per il mondo, a pregare con l’ardore di Gesù, perché “i più brutti peccatori, la gente più malvagia, i dirigenti più corrotti, sono figli di Dio e Gesù sente questo e intercede per tutti. E il mondo vive e prospera grazie alla benedizione del giusto, alla preghiera di pietà, a questa preghiera di pietà, il santo, il giusto, l’intercessore, il sacerdote, il vescovo, il Papa, il laico, qualsiasi battezzato, eleva incessante per gli uomini, in ogni luogo e in ogni tempo della storia. Pensiamo a Mosè, l’intercessore. E quando ci viene voglia di condannare qualcuno e ci arrabbiamo dentro (…) Va’ a intercedere per quello.” E’ l’intercessione il modo di pregare di Mosè, con senso di paternità, “quasi da far ponte con la sua stessa persona fra cielo e terra”; quando il popolo “ripudia Dio e lui stesso come guida per farsi un vitello d’oro”, Mosè chiede a Dio di perdonare il loro peccato. “Non vende la sua gente per far carriera. Non è un arrampicatore, è un intercessore: per la sua gente, per la sua carne, per la sua storia, per il suo popolo e per Dio che lo ha chiamato. È il ponte. Che bell’esempio per tutti i pastori che devono essere ‘ponte’. Per questo, li si chiama pontifex, ponti. I pastori sono dei ponti fra il popolo al quale appartengono e Dio, al quale appartengono per vocazione.” Questa deve essere la preghiera dei credenti che “anche se sperimentano le mancanze delle persone e la loro lontananza da Dio”, non le condannano. “L’atteggiamento dell’intercessione è proprio dei santi, che ad imitazione di Gesù, sono ‘ponti’ tra Dio e il suo popolo”. Il Pontefice ha così ripercorso tutta la vicenda di Mosè che non è stato un orante facile o fiacco. Quando Dio lo chiama era umanamente “un fallito,” che da “promettente funzionario” si era giocato le opportunità ed ora pascolava un gregge non suo, nel deserto di Madian. Ma è proprio nel silenzio del deserto, che Dio convoca Mosè, con il roveto ardente, quando si rivela come “il Dio di tuo padre, di Abramo…” e lo invita a prendersi nuovamente cura del suo popolo. Mosè oppone “paure e obiezioni” (non è degno, balbetta….). E’ proprio, però, per la sua debolezza, oltre che per la sua forza, che rimaniamo colpiti. Lui “fondatore del culto divino”, non cesserà di “intrattenere stretti legami di solidarietà con il suo popolo, specialmente nell’ora della tentazione e del peccato”. Egli “mai ha perso la memoria del suo popolo. E questa è una grandezza dei pastori: non dimenticare il popolo, non dimenticare le radici. E come Paolo dice al suo amato, giovane vescovo Timoteo: ricordati di tua mamma e di tua nonna, delle tue radici, del tuo popolo”. Non si deve smettere di “appartenere a quella schiera di poveri in spirito che vivono facendo della fiducia in Dio il viatico del loro cammino”.
Domenica 21 giugno, all’Angelus, Francesco, riflettendo sul Vangelo di Matteo, con l’invito a non avere paura di fronte alle sfide della vita e alle avversità, ha esortato i fedeli a non cedere “mai” allo sconforto, affidandosi sempre a Dio e alla sua grazia, “più potente del male.” Ora la paura “è uno dei nemici più brutti della vita nostra cristiana”. Per questo Gesù (nel contesto del “discorso missionario” con cui prepara gli apostoli alla “prima esperienza di annuncio del Regno di Dio”) invita “ad essere forti e fiduciosi di fronte alle sfide della vita”, anche alle “avversità”. Affronteranno anzitutto “l’ostilità di quanti vorrebbero zittire la Parola di Dio, edulcorandola, annacquandola o mettendo a tacere chi la annuncia”. Se “Lui lo ha trasmesso con cautela, (…) nel piccolo gruppo dei discepoli, (…) loro dovranno dire ‘nella luce’, cioè apertamente, e annunciare ‘dalle terrazze’, cioè pubblicamente, il suo Vangelo.” I “missionari di Cristo” incontreranno la minaccia fisica contro di loro, “cioè la persecuzione diretta contro le loro persone, fino all’uccisione”. Il pensiero è andato così ai tanti cristiani che “sono perseguitati anche oggi in tutto il mondo! Soffrono per il Vangelo con amore, sono i martiri dei nostri giorni. E possiamo dire con sicurezza che sono più dei martiri dei primi tempi: tanti martiri, soltanto per il fatto di essere cristiani. A questi discepoli di ieri e di oggi che patiscono la persecuzione, Gesù raccomanda” di non “lasciarsi spaventare da quanti cercano di spegnere la forza evangelizzatrice con l’arroganza e la violenza. Nulla, infatti, essi possono contro l’anima, cioè contro la comunione con Dio: questa, nessuno può toglierla ai discepoli, perché è un dono di Dio. La sola paura che il discepolo deve avere è quella di perdere questo dono divino, la vicinanza, l’amicizia con Dio, rinunciando a vivere secondo il Vangelo e procurandosi così la morte morale, che è l’effetto del peccato.” Se Dio sembra che abbia abbandonato i propri figli, “restando distante e silenzioso”, la vita dei discepoli “è saldamente nelle mani di Dio, che ci ama e ci custodisce”. “Sono come le tre tentazioni: edulcorare il Vangelo, annacquarlo; seconda, la persecuzione; e terza, la sensazione che Dio ci ha lasciati da soli. Anche Gesù ha sofferto questa prova nell’orto degli ulivi e sulla croce: ‘Padre, perché mi hai abbandonato?’, dice Gesù. Alle volte si sente questa aridità spirituale; non ne dobbiamo avere paura. Il Padre si prende cura di noi, perché grande è il nostro valore ai suoi occhi. Ciò che importa è la franchezza, è il coraggio della testimonianza, della testimonianza di fede: ‘riconoscere Gesù davanti agli uomini’ e andare avanti facendo del bene.”
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