Mercoledì 27 maggio, all’udienza generale (ancora dalla Biblioteca del Palazzo Apostolico), il Papa, richiamandosi ai primi capitoli di Genesi, ha riflettuto sulla preghiera dei giusti e il suo senso nella storia dell’umanità. Leggendo la storia dei progenitori, ha colto il disegno buono di Dio e come l’umanità sperimenti la presenza del male. C’è “anche il riscatto della speranza”, quella di Abele, Enoc e Noè. “Se anche quasi tutti si comportano in maniera efferata, facendo dell’odio e della conquista il grande motore della vicenda umana, ci sono persone capaci di pregare Dio con sincerità, capaci di scrivere in modo diverso il destino dell’uomo”. Si ha così “l’impressione che la preghiera sia l’argine, sia il rifugio dell’uomo davanti all’onda di piena del male che cresce nel mondo. A ben vedere, preghiamo anche per essere salvati da noi stessi. E’ importante. Pregare: Signore, per favore, salvami da me stesso, dalle mie ambizioni, dalle mie passioni. Salvami da me stesso”. Sono “operatori di pace”, perché la preghiera autentica, “libera dagli istinti di violenza ed è uno sguardo rivolto a Dio”. Sono qualità della preghiera che (si legge nel Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 2569) sono vissute “da una moltitudine di giusti in tutte le religioni”. La preghiera, poi, “coltiva aiuole di rinascita in luoghi dove l’odio dell’uomo è stato capace solo di allargare il deserto. Ecco perché la signoria di Dio transita nella catena di questi uomini e donne, spesso incompresi o emarginati nel mondo. Ma il mondo vive e cresce grazia alla forza di Dio che questi suoi servitori attirano con la loro preghiera. Sono una catena per nulla chiassosa, che raramente balza agli onori della cronaca, eppure è tanto importante per restituire fiducia al mondo!” Infatti “la preghiera è una catena di vita, sempre”, perché chi prega semina vita. E’ la “piccola preghiera”; per questo è importante “insegnare ai bambini a fare bene il segno della croce: anche se possono prendere un altro cammino, quel ‘seme di vita’ e di dialogo con Dio rimane.” Il cammino di Dio passa attraverso questo “resto” che non si uniforma alla legge del più forte, ma chiede a Dio di trasformare il cuore di pietra in cuore di carne. “Ci vuole tanta umanità e con l’umanità si prega bene”.
Domenica 31 maggio, presiedendo la S. Messa in san Pietro, nella solennità di Pentecoste, ha messo in rilevo il ruolo dello Spirito Santo che ha spinto la Chiesa “oltre i recinti di una fede timida e guardinga”. Se oggi come ieri, nella Chiesa “ci sono diversità, ad esempio di opinioni, di scelte, di sensibilità”, il “principio di unità è lo Spirito Santo”. Francesco ha esortato a superare “la brutta tentazione” di “difendere a spada tratta le proprie idee” e “a guardare la Chiesa come fa lo Spirito”, non come il mondo. “Lo Spirito viene a noi, con tutte le nostre diversità e miserie, per dirci che abbiamo un solo Signore, Gesù, e un solo Padre, e che per questo siamo fratelli e sorelle! Ripartiamo da qui, guardiamo la Chiesa come fa lo Spirito, non come fa il mondo. Il mondo ci vede di destra e di sinistra, con questa ideologia, con quell’altra; lo Spirito ci vede del Padre e di Gesù. II mondo vede conservatori e progressisti; lo Spirito vede figli di Dio. Lo sguardo mondano vede strutture da rendere più efficienti; lo sguardo spirituale vede fratelli e sorelle mendicanti di misericordia. Lo Spirito ci ama e conosce il posto di ognuno nel tutto: per Lui non siamo coriandoli portati dal vento, ma tessere insostituibili del suo mosaico.” Lo Spirito spinge “oltre i recinti di una fede timida e guardinga”. Nella Chiesa garantisce l’unità a chi annuncia, come gli Apostoli che vanno “si mettono in gioco, escono. Un solo desiderio li anima: donare quello che hanno ricevuto.” Ecco “il segreto dell’unità, il segreto dello Spirito. È il dono. Perché Egli è dono, vive donandosi e in questo modo ci tiene insieme, facendoci partecipi dello stesso dono.” Il Signore “non si comporta prendendo, ma donando”. Da come intendiamo, Dio dipende il nostro modo di essere credenti. “Se abbiamo in mente un Dio che prende e si impone, anche noi vorremo prendere e imporci: occupare spazi, reclamare rilevanza, cercare potere”. Se invece “abbiamo nel cuore Dio che è dono, tutto cambia. Se ci rendiamo conto che quello che siamo è dono suo, dono gratuito e immeritato, allora anche noi vorremo fare della vita un dono. E amando umilmente, servendo gratuitamente e con gioia, offriremo al mondo la vera immagine di Dio. Lo Spirito, memoria vivente della Chiesa, ci ricorda che siamo nati da un dono e che cresciamo donandoci; non conservandoci, ma donandoci.” Il Papa ha individuato quindi tre nemici, “sempre accovacciati alla porta del cuore”, che “ci ostacolano nel donarci”: il narcisismo, il vittimismo e il pessimismo. Il narcisismo fa vedere lo “specchio” e “fa idolatrare sé stessi, fa compiacere solo dei propri tornaconti”. Il vittimismo, “il dio-lamentela”, porta a pensare che “nessuno ci comprenda e provi quello che proviamo noi”. Il pessimismo, “il dio negatività”, fa “vedere tutto nero”. Ma pensando così, “quello che sicuramente non torna è la speranza”. Per questo, se ci “troviamo nella carestia della speranza (…) abbiamo bisogno dello Spirito Santo, dono di Dio che ci guarisce dal narcisismo, dal vittimismo e dal pessimismo.”
Al Regina Coeli, davanti ai fedeli in piazza S. Pietro (seppur rispettando le distanze richieste) ha messo in rilievo che la crisi del coronavirus chiede il coraggio “di essere migliori di prima” per “costruire positivamente la post-crisi della pandemia”. La festa di Pentecoste rinnova la consapevolezza che in noi dimora la presenza vivificante dello Spirito Santo che “dona anche a noi il coraggio di uscire fuori dalle mura protettive dei nostri ‘cenacoli’, dei gruppetti senza adagiarci nel quieto vivere o rinchiuderci in abitudini sterili. Eleviamo ora il nostro pensiero a Maria Santissima, Lei era lì con gli Apostoli quando è venuto lo Spirito Santo, protagonista con la prima Comunità dell’esperienza mirabile della Pentecoste, e preghiamo Lei perché ottenga per la Chiesa l’ardente spirito missionario”. Il Papa, riflettendo sul Vangelo domenicale, ha messo in luce che le parole del Risorto («Pace a voi») “esprimono il perdono (..) accordato ai discepoli che (…) lo avevano abbandonato. Sono parole di riconciliazione e di perdono. E anche noi, quando auguriamo pace agli altri, stiamo dando il perdono e chiedendo pure il perdono”. Così “Gesù fa di essi una Chiesa, la sua Chiesa: che è una comunità riconciliata e pronta alla missione. Riconciliata e pronta alla missione. Quando una comunità non è riconciliata, non è pronta alla missione: è pronta a discutere dentro di sé, è pronta alle [discussioni] interne. L’incontro con il Signore risorto capovolge l’esistenza degli Apostoli e li trasforma in coraggiosi testimoni”. Questo perché “Gesù perdona: perdona sempre, e offre la sua pace ai suoi amici. (…) Gesù non si stanca mai di perdonare. Siamo noi, che ci stanchiamo di chiedere perdono”. Per questo, “per animare la missione, Gesù dona agli Apostoli il suo Spirito”, che “è fuoco che brucia i peccati e crea uomini e donne nuovi; è fuoco d’amore con cui i discepoli potranno ‘incendiare’ il mondo, quell’amore di tenerezza che predilige i piccoli, i poveri, gli esclusi… Nei sacramenti del Battesimo e della Confermazione abbiamo ricevuto lo Spirito Santo con i suoi doni: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, conoscenza, pietà, timore di Dio. Quest’ultimo dono – il timore di Dio – è proprio il contrario della paura che prima paralizzava i discepoli: è l’amore per il Signore, è la certezza della sua misericordia e della sua bontà, è la fiducia di potersi muovere nella direzione da Lui indicata, senza che mai ci manchino la sua presenza e il suo sostegno”.
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