All’udienza generale di mercoledì 2 ottobre il Papa si è soffermato sul brano degli Atti dell’incontro di Filippo con l’Etiope, che rivela “l’importanza di comprendere la Parola di Dio e i Sacramenti per una nuova vita in Dio”, facendoci anche capire che, senza lo Spirito Santo, non c’è evangelizzazione. Il testo racconta come, nella città di Samaria, il diacono Filippo abbia incontrato uno straniero “dal cuore aperto a Dio”: è un uomo potente, un eunuco, “il grande banchiere, (…) il ministro dell’economia” , un alto funzionario della regina di Etiopia che legge il rotolo del profeta Isaia che riconosce con umiltà “di avere bisogno di essere guidato per comprendere la Parola di Dio”. Da questo dialogo possiamo capire “che non basta leggere la Scrittura, occorre comprenderne il senso, trovare il ‘succo’ andando oltre la ‘scorza’, attingere lo Spirito che anima la lettera. Come disse Papa Benedetto all’inizio del Sinodo sulla Parola di Dio, «l’esegesi, la vera lettura della Sacra Scrittura, non è solamente un fenomeno letterario, […]. È il movimento della mia esistenza» (Meditazione, 6 ottobre 2008). Entrare nella Parola di Dio è essere disposti a uscire dai propri limiti per incontrare Dio e conformarsi a Cristo che è la Parola vivente del Padre.”
Con l’aiuto di Filippo, l’Etiope finalmente comprende il testo che sta leggendo: riconosce che quel mite servo sofferente “è proprio quel Cristo che Filippo e la Chiesa tutta annunciano”. Così chiede il Battesimo e professa la fede in Gesù. Occorre però non dimenticare che è lo Spirito Santo, “il protagonista dell’evangelizzazione,” a segnare “una nuova tappa del viaggio del Vangelo” spingendo Filippo “ad andare incontro a uno straniero dal cuore aperto a Dio”, perché “se non c’è lo Spirito Santo non c’è evangelizzazione”. Evangelizzare non può “essere proselitismo, pubblicità”, ma significa farsi “guidare dallo Spirito Santo” perché è Lui che spinge nell’annuncio “con la testimonianza, anche con il martirio, anche con la Parola”. Di qui l’auspicio “che lo Spirito faccia dei battezzati uomini e donne che annunciano il Vangelo per attirare gli altri non a sé ma a Cristo, che sanno fare spazio all’azione di Dio, che sanno rendere gli altri liberi e responsabili dinanzi al Signore.”
Domenica 6 ottobre ha presieduto la S.Messa per dare inizio al Sinodo dei vescovi sull’Amazzonia (fino al 27 ottobre), in S. Pietro gremita, oltre che da tanti padri sinodali, da numerosi rappresentanti delle popolazioni di questa porzione di mondo. Per questo ha esortato i Pastori a camminare insieme con chi ha versato la vita in questa Regione e a ravvivare il fuoco d’amore ricevuto. Forte la denuncia di ciò che è avvenuto nelle scorse settimane in Amazzonia, perché il fuoco appiccato da interessi che distruggono non è quello del Vangelo. Nella fedeltà alla missione ricevuta, i vescovi sono chiamati a “ravvivare” il dono di Dio, quel fuoco d’amore bruciante per Dio e per i fratelli, non il fuoco che divora popoli e culture, ma che riscalda e sa discernere. Con prudenza, che non è timidezza, è una virtù cristiana e di governo mentre qualcuno pensa che sia la virtù “dogana” che ferma tutto per non sbagliare. La Chiesa, in nessun modo, “può limitarsi ad una pastorale di mantenimento, per coloro che già conoscono il Vangelo”: serve slancio missionario. La Chiesa “sempre è in cammino” e “mai chiusa in sé stessa”. Gesù, infatti, non è venuto a portare la brezza della sera, ma il fuoco sulla terra: “allora ravvivare il dono nel fuoco dello Spirito è il contrario di lasciar andare avanti le cose senza far nulla. Ed essere fedeli alla novità dello Spirito è una grazia che dobbiamo chiedere nella preghiera. Egli, che fa nuove tutte le cose, ci doni la sua prudenza audace; ispiri il nostro Sinodo a rinnovare i cammini per la Chiesa in Amazzonia, perché non si spenga il fuoco della missione.”
All’Angelus, ha parlato della gioia di essere al servizio gli uni degli altri. Prendendo spunto dalla parabola evangelica narrata da Luca nella liturgia domenicale, ha colto il tema della fede, mettendo a fuoco due “immagini”, quella del granellino di senape e quella del servo disponibile. Infatti Gesù “vuole far capire che la fede, anche se piccola può avere la forza di sradicare persino un gelso. E poi di trapiantarlo nel mare, che è una cosa ancora più improbabile: ma nulla è impossibile a chi ha fede, perché non si affida alle proprie forze, ma a Dio, che può tutto.” Una “fede che non è superba e sicura di sé”, ma che nella sua umiltà “sente un grande bisogno di Dio” e si “abbandona con piena fiducia a Lui”: essa “ci dà la capacità di guardare con speranza le vicende alterne della vita, che ci aiuta ad accettare anche le sconfitte, le sofferenze, nella consapevolezza che il male non ha mai, non avrà mai, l’ultima parola.” Il servizio, poi, ci fa capire se la nostra fede è veramente genuina, pura e schietta, come spiega la parabola del servo disponibile. “Gesù vuole dire che così è l’uomo di fede nei confronti di Dio: si rimette completamente alla sua volontà, senza calcoli o pretese. Questo atteggiamento verso Dio si riflette anche nel modo di comportarsi in comunità: si riflette nella gioia di essere al servizio gli uni degli altri, trovando già in questo la propria ricompensa e non nei riconoscimenti e nei guadagni che ne possono derivare. È ciò che insegna Gesù alla fine di questo racconto: ‘quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare’ (v. 10).” L’esempio dei servi inutili “senza di essere ringraziati, senza rivendicazioni” rinnova anche l’impegno all’interno della Chiesa. “E ’un’espressione di umiltà, disponibilità che tanto fa bene alla Chiesa e richiama l’atteggiamento giusto per operare in essa: il servizio umile, di cui ci ha dato l’esempio Gesù, lavando i piedi ai discepoli (cfr Gv 13,3-17).”
Comments are closed, but trackbacks and pingbacks are open.