LA PAROLA DI PAPA FRANCESCO
a cura di Gian Paolo Cassano
E’ la povertà nella “carne” di un uomo, di una donna, di un bambino che “ci interpella”, ci provoca e ci coinvolge direttamente, spingendoci a “dare da mangiare agli affamati” e “da bere agli assetati”. Lo ha messo in rilievo il Papa nel corso dell’udienza generale di mercoledì 19 ottobre.
In questa società “del cosiddetto benessere”, le persone sono portate a “chiudersi”, ad essere “insensibili alle esigenze degli altri”, spinte da “modelli di vita effimeri” che scompaiono dopo qualche anno, come una “moda”. Il Papa ha fatto risuonare forte il richiamo a dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati, ricordando le “popolazioni che soffrono la mancanza di cibo e di acqua, con gravi conseguenze specialmente per i bambini”. Il Pontefice ha ricordato le “campagne di aiuto per stimolare la solidarietà” e le donazioni che servono a “contribuire ad alleviare la sofferenza di tanti”: è una forma di carità “importante”, ma forse “non ci coinvolge direttamente”. Invece è per strada o anche alla porta di casa nostra che possiamo incrociare chi ha bisogno, perché “veniamo coinvolti in prima persona”. Siamo portati allora a girare lo sguardo e passare oltre. Ma l’’esperienza della fame “è dura” e “ne sa qualcosa chi ha vissuto periodi di guerra o di carestia. Eppure questa esperienza si ripete ogni giorno e convive accanto all’abbondanza e allo spreco”. Chi è “in necessità” chiede “solo il necessario: qualcosa da mangiare e da bere”. La fede (come ricordava l’apostolo Giacomo) se non è seguita dalle opere, “in sé stessa è morta”, è incapace “di fare carità, di fare amore”. Ora “c’è sempre qualcuno che ha fame e sete e ha bisogno di me. Non posso delegare nessun altro. Questo povero ha bisogno di me, del mio aiuto, della mia parola, del mio impegno. Siamo tutti coinvolti in questo”. Gesù ci assicura che “il poco che abbiamo”, se lo affidiamo alle sue mani e lo “condividiamo con fede”, diventa una “ricchezza sovrabbondante”.
Sabato 22 ottobre, alla speciale udienza giubilare, ha parlato del dialogo come un’esigenza “ineludibile” per la Chiesa, prendendo spunto dal brano giovanneo dell’incontro di Gesù con la Samaritana. Il dialogo è anzitutto un “segno di grande rispetto”, ma pure “espressione di carità” perché, “pur non ignorando le differenze, può aiutare a ricercare e condividere il bene comune”. E’ vero che spesso non “ascoltiamo abbastanza” oppure interrompiamo l’altro “per dimostrare di avere ragione”. Dialogare “aiuta le persone a umanizzare i rapporti e a superare le incomprensioni”. Ed anche nelle nostre famiglie “si risolverebbero più facilmente le questioni se si imparasse ad ascoltarsi vicendevolmente”, sia “nel rapporto tra marito e moglie” che “tra genitori e figli”. Ciò vale anche nel “dialogo tra gli insegnanti e i loro alunni; oppure tra dirigenti e operai, per scoprire le esigenze migliori del lavoro. Di dialogo vive anche la Chiesa con gli uomini e le donne di ogni tempo, per comprendere le necessità che sono nel cuore di ogni persona e per contribuire alla realizzazione del bene comune.” Così è per il dialogo nella custodia del creato e tra le religioni. Tutto ciò può contribuire “alla costruzione della pace e di una rete di rispetto e di fraternità”. Tutte le forme di dialogo che “sono espressione della grande esigenza di amore di Dio, che a tutti va incontro e in ognuno pone un seme della sua bontà, perché possa collaborare alla sua opera creatrice”. Infatti “il dialogo abbatte i muri delle divisioni e delle incomprensioni; crea ponti di comunicazione e non consente che alcuno si isoli, rinchiudendosi nel proprio piccolo mondo. Non dimenticatevi: dialogare è ascoltare quello che mi dice l’altro e dire con mitezza quello che penso io. Se le cose vanno così, la famiglia, il quartiere, il posto di lavoro, saranno migliori”. Così “attraverso il dialogo, possiamo far crescere i segni della misericordia di Dio e renderli strumento di accoglienza e rispetto”.
Domenica 23 ottobre, all’Angelus, è partito dall’esperienza missionaria di San Paolo, che è “risultata efficace, giusta e fedele solo grazie alla vicinanza e alla forza del Signore, che ha fatto di lui un annunciatore del Vangelo a tutti i popoli”. Questo “ci ricorda che dobbiamo impegnarci nelle attività pastorali e missionarie, da una parte, come se il risultato dipendesse dai nostri sforzi, con lo spirito di sacrificio dell’atleta che non si ferma nemmeno di fronte alle sconfitte; dall’altra, però, sapendo che il vero successo della nostra missione è dono della Grazia: è lo Spirito Santo che rende efficace la missione della Chiesa nel mondo”. Oggi “è tempo di missione ed è tempo di coraggio: coraggio di rafforzare i passi vacillanti, di riprendere il gusto dello spendersi per il Vangelo, di riacquistare fiducia nella forza che la missione porta con sé. È tempo di coraggio, anche se avere coraggio non significa avere garanzia di successo. Ci è richiesto il coraggio per lottare, non necessariamente per vincere; per annunciare, non necessariamente per convertire. Ci è richiesto il coraggio per essere alternativi al mondo, senza però mai diventare polemici o aggressivi. Ci è richiesto il coraggio per aprirci a tutti, senza mai sminuire l’assolutezza e l’unicità di Cristo, unico salvatore di tutti. Ci è richiesto coraggio per resistere all’incredulità, senza diventare arroganti…..”
Gian Paolo Cassano
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