LA PAROLA DI PAPA FRANCESCO
a cura di Gian Paolo Cassano
L’udienza generale di mercoledì 27 aprile è stata dedicata alla parabola del Buon samaritano, che forse, come nessun’altra, dà forma tridimensionale alla parola “compassione”. Riferendosi al passaggio a vuoto del sacerdote e del levita il Papa ha osservato: “non è automatico che chi frequenta la casa di Dio e conosce la sua misericordia sappia amare il prossimo ! (…) Tu puoi conoscere tutta la Bibbia, tu puoi conoscere tutte le rubriche liturgiche, tu puoi conoscere tutta la teologia, ma dal conoscere non è automatico l’amare: l’amare ha un’altra strada, occorre l’ intelligenza, ma anche qualcosa di più…”. Essi “vedono, ma ignorano, guardano, ma non provvedono. Eppure non esiste vero culto se esso non si traduce in servizio al prossimo”. Occorre non dimenticare mai che “di fronte alla sofferenza di così tanta gente sfinita dalla fame, dalla violenza e dalle ingiustizie, non possiamo rimanere spettatori. Ignorare la sofferenza dell’uomo (…) significa ignorare Dio! Se io non mi avvicino a quell’uomo, a quella donna, a quel bambino, a quell’anziano o a quell’anziana che soffre, non mi avvicino a Dio”. Il samaritano è invece l’uomo della prossimità, l’uomo che si commuove alla vista della persona ridotta in fin di vita, l’uomo che interrompe il suo viaggio perché “patisce con”, che ha il cuore “sintonizzato con il cuore stesso di Dio”. Infatti “la ‘compassione’ è una caratteristica essenziale della misericordia di Dio. Dio ha compassione di noi. Cosa vuol dire? Patisce con noi, le nostre sofferenze Lui le sente (…) E nei gesti e nelle azioni del buon samaritano riconosciamo l’agire misericordioso di Dio in tutta la storia della salvezza. E’ la stessa compassione con cui il Signore viene incontro a ciascuno di noi: Lui non ci ignora, conosce i nostri dolori, sa quanto abbiamo bisogno di aiuto e di consolazione. Ci viene vicino e non ci abbandona mai”. Comprendiamo allora che “la compassione, l’amore, non è un sentimento vago, ma significa prendersi cura dell’altro fino a pagare di persona. Significa compromettersi compiendo tutti i passi necessari per ‘avvicinarsi’ all’altro fino a immedesimarsi con lui”. Così ognuno può “diventare prossimo di chiunque incontri nel bisogno, e lo sarai se nel tuo cuore hai compassione, cioè hai quella capacità di patire con l’altro”.
Sabato 30 aprile, durante la catechesi giubilare, ha auspicato che chi sceglie di riavvicinarsi a Dio attraverso il Sacramento della Riconciliazione si senta accolto da confessori delicati e paterni e non faccia invece esperienza di una “sala di tortura”. Ora “quando pecchiamo, noi voltiamo le spalle a Dio”, ma Gesù che non le volta mai al peccatore, “viene a cercarci come un bravo pastore che non è contento fino a quando non ha ritrovato la pecora perduta”. Di qui l’invito del Pontefice: “lasciamoci riconciliare con Dio! Questo Giubileo della Misericordia è un tempo di riconciliazione per tutti !” Inoltre “fare esperienza della riconciliazione con Dio permette di scoprire la necessità di altre forme di riconciliazione: nelle famiglie, nei rapporti interpersonali, nelle comunità ecclesiali, come pure nelle relazioni sociali e internazionali”. Così ha incoraggiato a fare “ponti di riconciliazione anche fra noi, incominciando dalla stessa famiglia. (…) La riconciliazione infatti è anche un servizio alla pace, al riconoscimento dei diritti fondamentali delle persone, alla solidarietà e all’accoglienza di tutti”.
Al Regina Coeli domenica 1 maggio il cuore del Papa è andato alla “disperata situazione umanitaria” della Siria, alla necessità di difendere i minori senza tollerarne “gli abusi” (“dobbiamo difendere i minori e dobbiamo punire severamente gli abusatori”), alla promozione della dignità umana nel “pieno rispetto delle normative sul lavoro e sull’ambiente”, rivolgendo un saluto alle Chiese d’Oriente che celebrano la Pasqua. Si è poi soffermato al significato del dono dello Spirito Santo nella nostra vita, la cui presenza è “la pace che Gesù dona ai suoi discepoli”. Ora ogni discepolo è “chiamato oggi a seguire Gesù portando la croce” e ricevendo la Sua pace: “lo Spirito, effuso in noi con i sacramenti del Battesimo e della Cresima, agisce nella nostra vita. Lui ci guida nel modo di pensare, di agire, di distinguere che cosa è bene e che cosa è male; ci aiuta a praticare la carità di Gesù, il suo donarsi agli altri, specialmente ai più bisognosi”. Come è stato per gli apostoli, anche oggi lo Spirito Santo insegna e ricorda “nei nostri cuori” le parole di Cristo; è “ciò che avviene ancora oggi nella Chiesa”, guidata dalla luce e dalla forza dello Spirito Santo, perché “possa portare a tutti il dono della salvezza, cioè l’amore e la misericordia di Dio”. Poi l’invito, leggendo quotidianamente “un brano, un passo del Vangelo” a chiedere allo Spirito Santo: “che io capisca e che io ricordi queste parole di Gesù”.
Gian Paolo Cassano
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